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|lo sguardo di un'aspirante antropologa sul mondo|

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Latest Posts by appuntidicampo - Page 3

3 years ago

| Barbero-gate |

Incuriosita dai meme e dal mio Instagram invaso dal Barbero-gate, che ha coinvolto lo storico e divulgatore italiano Alessandro Barbero, ho proceduto a documentarmi.

Cosa è successo?

Il 21 ottobre Silvia Francia, giornalista del quotidiano italiano La Stampa, intitola la sua intervista con Barbero: “Le donne secondo Barbero: “Sono insicure e poco spavalde, così hanno meno successo”, [come si legge sotto].

| Barbero-gate |

Il passo "incriminato" dell’intervista è questo:

Silvia Francia: “Barbero, arrivando a oggi, come mai, secondo lei, le donne faticano tanto non solo ad arrivare al potere, ma anche ad avere pari retribuzione o fare carriera?”.

Alessandro Barbero: "Premesso che io sono uno storico e che quindi il mio compito è quello di indagare il passato e non il presente o futuro, posso rispondere da cittadino che si interroga sul tema. Di fronte all'enorme cambiamento di costume degli ultimi cinquant’anni , viene da chiedersi come mai non si sia più avanti in questa direzione. Ci sono donne chirurgo, altre ingegnere e via citando, ma a livello generale, siamo lontani da un’effettiva parità in campo professionale. Rischio di dire una cosa impopolare, lo so, ma vale la pensa di chiedersi se ci siano differenze strutturali fra uomo e donna che rendono a quest’ultima più difficile avere successo in certi campi. E’ possibile che in media, le donne manchino di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sé che servono ad affermarsi? Credo sia interessante rispondere a questa domanda. Non ci si deve scandalizzare per questa ipotesi, nella vita quotidiana si rimarcano spesso differenze fra i sessi. E c'è chi dice: "Se più donne facessero politica, la politica sarebbe migliore". Ecco, secondo me, proprio per questa diversità fra i due generi".

Ho letto il passo più e più volte, cercando di comprendere cosa avesse detto Barbero per essere investito dalla gogna mediatica che sta avendo luogo sulle varie piattaforme social. È evidente che le parole di Barbero sono state strumentalizzate, per creare notizia (si noti che per accedere all'articolo integrale si deve pagare, ChIsSa PeRChè!1!11!). Se si legge con attenzione Barbero, nel riferire la risposta sta cercando di dare un’ipotesi a ciò che la giornalista ha chiesto. Infatti c’è un punto interrogativo, ma a quanto pare è passato inosservato.

Nelle lezioni di “Metodologia della ricerca etnografica” mi hanno insegnato che quando si costruisce una scaletta di domande si devono evitare domande tendenziose. La giornalista ha posto una domanda tendenziosa-mente, in quanto ha rintracciato già lei uno svantaggio che determina a vita le donne: “le donne faticano tanto”, limitando 'quell'ulteriore' che nasce dal dialogo con l'altro. Io mi sarei chiesta: “Come mai in questo momento storico si discute e si chiama in causa la donna principalmente se ci sono di mezzo questioni di genere?”.

Lo so che viviamo in un sistema sociale organizzato a tal punto che l’uomo è incentivato a esserlo, lo riconosceva già Flaubert che scriveva della disperazione provata da Madame Bovary (1856) nel scoprire che aveva partorito una bambina:

Partorì una domenica alle sei, al levar del sole.

«È una bambina!» disse Charles.

Emma voltò la testa e svenne.

Ad esempio, quando andavo al liceo prendevo l'autobus e notavo che gli autisti erano tutti uomini oppure all’Università che tra i più illustri prof. la maggior parte erano uomini, come tra l'altro sono gli autori che ho studiato nei vari esami. A questo punto non ci vuole un ipotetico "Barbero-alphaman" a far emergere eventuali “differenze strutturali”. C’è un intero sistema organizzato a mantenere e riprodurre asimmetrie di ruolo. Al contempo, però, non posso che guardare critica-mente alla narrazione che descrive il rapporto donna-uomo nel mio contesto culturale e sociale. Non posso permettermi di accettare di riassumerlo attraverso il patriarcato, in quanto ci sono poche occasioni di dibattito critico nelle quali si chiede come si vive il patriarcato o che cosa significa nella quotidianità. Si danno soluzioni preconfezionate, senza chiamare in causa le singole esistenze. Secondo me, il patriarcato non dovrebbe essere né una 'soluzione' né un punto di arrivo, ma un punto di partenza, ovvero? Se c’è questo squilibro uomo-donna iniziamo a capire come viene vissuto e rappresentato a livello esperienziale, per chi lo vive. Chiedendosi ad esempio: come mai in Sicilia si rintracciano poche donne che lavorano per le autolinee? Oppure come mai nelle aule universitarie il pensiero antropologico con cui vengono formati gli/le studenti/studentesse è un sapere prodotto da uomini?

Io non capisco perché sia diventato così ‘automatico’ esprimersi senza aver prima chiesto agli attori sociali; oppure senza aver analizzato a sufficienza le categorie con cui pensiamo il rapporto uomo-donna.

Sitografia

https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2021/10/21/news/le-donne-secondo-barbero-sono-insicure-e-poco-spavalde-cosi-hanno-meno-successo-1.40833395(intervista Silvia Francia)


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3 years ago

|Alzare gli occhi al cielo non è peccato|

Ascolto quotidianamente omelie e prediche sull'accettazione personale e sul dover raggiungere un equilibro tale da distaccarsi dagli ideali, reali e non, che la nostra società ci propone. Non posso constatare quanta superficialità nascondano queste litanie. Questi ragionamenti mi sembrano delle illusioni create per arginare sommariamente il problema. Nonostante l’individualismo onnipresente-> siamo individui immersi in un contesto sociale.

Secondo me non esisterà mai un sano discorso di ‘accettazione personale’, fino a quando non si inizierà a ragionare, operativa-mente, su come l'essere umano si confronta e si relaziona con la società e con i suoi simili. Solo quando si capirà come avviene o come viene vissuto lo scambio soggetto-mondo, forse si comprenderà come realizzare questa benedetta “accettazione personale”.


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3 years ago

sbagliando si imparerebbe: così è se vi pare

Continuo a non afferrare come certe forme di umanità, che si dispiegano su questa realtà, si mostrino così poco avezze allo scambio equo di punti di vista e di visioni differenti sulla realtà...................... perché è così deviante accettare e ascoltare forme di pensiero diverso o contrastante?............................................... perché l'emozione dovrà sempre prevalere sulla razionalità?

3 years ago
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Francesco Rosi, Cristo si è fermato a Eboli (1979)

Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli

3 years ago

Per i contadini, lo Stato è più lontano del cielo, e più maligno, perché sta sempre dall'altra parte. Non importa quali siano le sue formule politiche, la sua struttura, i suoi programmi. I contadini non li capiscono, perché è un altro linguaggio dal loro, e non c'è davvero nessuna ragione perché li vogliano capire. La sola possibile difesa, contro lo Stato e contro la propaganda, è la rassegnazione, la stessa cupa rassegnazione, senza speranza di paradiso, che curva le loro schiene sotto i mali della natura.

Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli

3 years ago
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The nanny diaries, 2007

3 years ago

|| scassa-menti serali ||

Quale sé personale e unico si può sviluppare all'interno di un contesto in cui ognuno va uniformandosi alle tendenze esistenti?

Tutto è un cliché, i pensieri, le posture, i modi di fare, la musica, i film, le estetiche, le parole, le situazioni, i conflitti interiori ed esteriori, questa frase... è un continuo ritornare a ruoli giá assunti, ascoltati e consumati. Per realizzare, infine, che questa condizione viene amplificata dall'auto-rappresentazione perenne.

3 years ago

💖Se nel 1988 Almodovar intitolava un suo film "Donne sull'orlo di una crisi di nervi", oggi sarebbe "Studentessa di antropologia sull'orlo di una crisi di nervi".💖

Come si può riuscire a frequentare questa realtà culturale senza che venga minato l'equilibrio psico-fisico?

Più osservo la realtà attraverso i filtri dell'antropologia, più noto forme di disagio nell'organizzazione della vita che si sviluppa intorno a me. I ritmi di vita sono fin troppo frenetici e veloci. Se non esiste più il cottimo o la catena di montaggio di Henry Ford, oggi proliferano i seguenti mindset: “Non c’è mai tempo”. Ma se il concetto di tempo è, essenzialmente, un prodotto disciplinato dai vari contesti culturali: perché l’uomo decide di rappresentare gli spazi temporali come limitati? Il futuro è come se fosse qualcosa che non esistesse, ma che tutto debba essere consumato nell’eterno presente. Di conseguenza, questa concezione consumistica del tempo entra in tilt quando si realizza che al mondo non si è solo mente o idee, ma anche corpo dove le controindicazioni di questa impostazione non tardano a presentarsi…


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3 years ago

|| Sarà forse un mio limite

ma difficilmente entrerò in sintonia con i sostenitori dell’ideologia decostruzionista disfunzionale. Mi riferisco a coloro che mirano ad instaurare un regime equo che passa attraverso la demolizione coatta di tutto ciò che non rientra nelle loro concezioni di giusto.

Non capisco perché non si predilige, invece, una scomposizione delle presunte negatività per approfondire e conoscere come vengono vissute da chi le sperimenta nella pratica.

Ancor prima di iniziare l’operazione di demolizione, perché l’analisi non parte da ciò che sta a cuore della gente, da "cosa c’è in ballo?" parafrasando Arthur Kleinman? Invece nell’instaurazione del regime equo tutto scade nel moralismo più tossico, dove gli altri per star bene devono essenzialmente insistere a rigettare e vivere ciò che questi decostruzionisti disfunzionali propinano…


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3 years ago

| il dolce blaterale, b-l-a-t-e-r-a-r-e |

Da un paio di anni frequento da spettatrice la beauty community italiana dedicata alla cosmesi. All’interno di questo contesto noto che le varie beauty-influencers realizzano linee o prodotti di bellezza che portano il loro nome, una pratica piuttosto antica. Da tempi remoti l'uomo vende prodotti nei quali iscrive discorsi di rappresentazione dell'identità (penso, ad esempio, alla vendita di rosari, acque sante, frammenti di relique, etc,.)

Oggi si assiste ad un discorso nel quale viene commercializzata la propria identità che si trasforma in un'icona da brandizzare. Come nel caso di una beauty influencer, che seguo con piacere, che ha realizzato la sua linea di prodotti di bellezza (lo so, l'uso di «beauty» sarebbe stato più intrigante, ma in italiano suona più evocativo). Nel presentare il suo marchio scrive:

| Il Dolce Blaterale, B-l-a-t-e-r-a-r-e |

Ho oscurato il nome perché vorrei che la sua persona passasse in secondo piano. È più funzionale analizzare come sta commercializzando il suo prodotto, per indurre il membro della sua community all'acquisto della palette.

In questa descrizione si attenzionano un paio di elementi. Il primo è il voler sottolineare lo sforzo personale e gli anni di intenso lavoro. La nostra società, infatti, imposta il rapporto tra lavoro e uomo in forme quali la fatica, lo struggimento al fine di raggiungere gli obiettivi sperati. Poi, viene inserito il tema delle abilità acquisite, in modo da certificare che sia una persona competente e che il «suo» prodotto sia affidabile.

Nella seconda parte di questa presentazione emerge una criticità, un punto su cui vorrei riflettere. La guru di bellezza «sente il bisogno» di realizzare qualcosa «di uso», utilizzando quelle che «secondo lei sono le migliori blabla», per creare dei prodotti «ascoltando soprattutto la propria community».

Il consumatore è messo nelle condizioni di empatizzare con quel venditore e con i suoi sacrifici ed inoltre sta comprando un prodotto realizzato e negoziato attraverso la partecipazione dei membri della community. Anche se, però, non ci è dato sapere che tipo di ascolto venga adoperato per la realizzazione di questi prodotti. É qui che noto l'ambiguità. Se vuole creare qualcosa di suo, utilizzando le migliori texture da lei scovate, come riesce a creare prodotti insieme ai suoi seguaci? Questo ascolto, forse, verrà perseguito in futuro?

Nella commercializzazione, la beauty-lady mischia istanze personali e collettive: «per me» o «soprattutto per voi». Per un richiamo all’emotività del consumatore, dato che egli appartiene alla sua «community».

| Il Dolce Blaterale, B-l-a-t-e-r-a-r-e |

Da studentessa di antropologia trovo che questa narrazione sia accattivante e ricca di spunti interessanti per capire come i soggetti imprenditoriali impostino strategie per conquistarsi la fiducia del loro pubblico.

Voi cosa ne pensate? Su cosa sta insistendo questa imprenditrice per presentare il suo prodotto? Cosa ci leggete?


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3 years ago

| (Im)preparazione |

Cercavo di riflettere sul fenomeno del ghosting — Baudelaire sicuramente lo assocerebbe al «mal du siècle» — con questo termine si designano quelle sparizioni improvvise di persone con le quali si sta insieme o si sta iniziando un periodo di conoscenza.

Leggo spesso che la causa dell’atteggiamento del «fantasma» sia lo scarso interesse. A mio avviso questa interpretazione potrebbe essere una parziale verità. Per me le questioni sono molto più sfaccettate e complesse.

Non dovrebbe tanto essere una questione da declinare in queste forme: è nella cultura e nei modi di fare dell’uomo o della donna a farli agire così, perché sono essenzialmente degli idioti. Questa è semplicemente una giustificazione. È un po’ come quando — estremizzo — in passato gli antropologi interpretavano le usanze considerate “astruse” di alcune popolazioni, in virtù del fatto che fosse nella loro cultura, pertanto non indagavano criticamente quella pratica.

Se una persona “sparisce” la si giustifica. Invece perché non si inizia a far presente che il nostro secolo è impreparato e non sufficientemente pronto a relazionarsi con l’altro...?!

Non sono i rapporti a non essere più profondi, ma sono le condizioni presenti che permettono e legittimano comportamenti da “egoisti” e “irresponsabili”. Non è la persona di per sé cattiva perché dà indifferenza è l’interno sistema che glielo permette. Ad esempio, nel mio contesto culturale alcune interazioni possono svolgersi in contesti virtuali e le app su cui si può interagire delineano scenari in cui puoi non rispondere o puoi sparire senza dare una giustificazione all’altr*. Ciò lo si può riscontrare nei meccanismi del “visualizzato", "letto", "consegnato", "notifica a comparsa", "segna come da leggere". Diciamo che si svilupperebbe uno scenario in cui viene favorito l'atteggiamento di totale mancanza di responsabilità nei confronti dell’emotività e sensibilità altrui. Perché i creatori delle app di messaggistica decidono di inserire queste diciture?

Orbene, sto declinando la questione da un punto di vista essenzialmente culturale, in termini di come il mio contesto sociale rappresenta e mette in scena uno dei tanti modo di sviluppare le interazioni umane. Credo per cui che si dovrebbe iniziare a ragionare in maniera più approfondita su certi meccanismi di interazione sociale così “ovvi” e “naturali”.

Ps: Mi piacerebbe davvero conoscere il punto dei vista dei “fantasmin*”.


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3 years ago

Aneddoti profani da inserire nel curriculum di una studentessa di antropologia:

✔Leggere uno pseduo harmony/young adult vibes, che si ispira a sviluppare il vissuto personale di una nota coppia di antrostar del secolo scorso.

Un esempio esplicativo?

[Segue quello della coppia durante un amplesso con finalità riproduttive:]

Aneddoti Profani Da Inserire Nel Curriculum Di Una Studentessa Di Antropologia:

Ma un antropologo potrebbe mai parlare così...?

È da riscrivere.

Aneddoti Profani Da Inserire Nel Curriculum Di Una Studentessa Di Antropologia:

Ecco. Ora va già meglio.

Vabbè deficienze a parte, Euforia di Lili King é stata una lettura curiosa, blasfema, ma interessante perché permette di umanizzare gli e le antropologhe (per me sono dei semidei) e di avvicinarsi alla comprensione di alcune peculiarità del "mestiere".


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3 years ago

|| Note a margine

Quando stai rielaborando concetti e parole di terzi per cercare di costruire una coerenza narrativa e logica, pensi: "Ma che fatica!". Oppure passi ogni tre secondi a chiederti: "Ma sto interpretando correttamente le parole di questa persona? Sto riuscendo a capire e a rendere ciò che mi sta dicendo?".

Vorrei ritornare adesso a tradurre quei minidialoghi basic del liceo, quelli che si trovano nei libri per apprendere le lingue straniere.

✂---------------------------------------------------------------

Penso che cogliere il punto di vista di una persona che parla la mia stessa lingua, a volte, non ne determina l'effettiva comprensione, perché entrano in gioco le diverse sfumature di significato, le intenzioni, gli elementi paraverbali, le espressioni non verbali e su questi non sono stati ancora ideati vocabolari e dizionari.


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3 years ago

[◇] L' essere umano può amare se stesso senza condizionamenti? O sarà destinato a farlo attraverso le immagini degli ideali e delle rappresentazioni con i quali viene plasmato?

3 years ago

| Autenticità di contesto |

Ogni tanto mi capita di leggere “doc", "100 % originale" o altri sinonimi che certificano l'unicità di un prodotto o di un tratto culturale, etc,.

(come leggo qui) >>

| Autenticità Di Contesto |
| Autenticità Di Contesto |

La mia reazione è all’incirca questa:

| Autenticità Di Contesto |
| Autenticità Di Contesto |

Da sempre l’uomo ha vissuto in un contesto in cui si è “mischiato” ed ha definito, artificiosa-mente e artificial-mente, ciò che lo contraddistingue. Ad esempio, sul finire del Cinquecento la storiografia occidentale documenta uno dei più celebri incontri culturali, quello tra le Americhe e i conquistadores. Ne Indios, cinesi, falsari: le storie del mondo nel Rinascimento (2016) di Giuseppe Marcocci viene raccontato che durante l’evangelizzazione delle popolazioni indigene messicane, i frati hanno voluto iscrivere la storia messicana nel quadro di una più ampia storia ecclesiastica, provvidenziale e globale dell’umanità, andando a mescolare le diverse tradizioni locali per creare un quadro di autenticità storica. Marcocci evidenzia però che nello scrivere riguardo alle genealogie e storie dei mexica (oggi aztechi): c'è una buona dose di incongruenza metodologica e storica.

Se considerate questo esempio fin troppo âgé ne propongono uno più recente. L’antropologo americano Ralph Linton nelle lezioni di Antropologia culturale (anche il mio prof. lo fece) era solito proporre questo esempio (Aime):

«Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente. [...]

Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una nuova serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è di acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud, la forchetta ha origini medioevali italiane, il cucchiaio è un derivato dell’originale romano. Prende il caffè, pianta abissina, con panna e zucchero. Sia l’idea di allevare mucche che quella di mungerle ha avuto origine nel vicino Oriente, mentre lo zucchero fu estratto in India per la prima volta. Dopo la frutta e il caffè, mangerà le cialde, dolci fatti, secondo una tecnica scandinava, con il frumento, originario dell’Asia minore […]. Quando il nostro amico ha finito di mangiare, si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli indiani d’America, consumando la pianta addomesticata in Brasile o fumando la pipa, derivata dagli indiani della Virginia, o la sigaretta, derivata dal Messico. Può anche fumare un sigaro, trasmessoci dalle Antille, attraverso la Spagna. Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che si agitano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica di averlo fatto al cento per cento americano».

Dalla mia narrazione sembrerebbe evidente il tipo di scenario che si prospetta per considerare il concetto di “autentico”, cioè ritenendolo un costrutto, inventato dalle culture:

«Spesso siamo convinti che gran parte di ciò che utilizziamo sia il frutto della “nostra” cultura e della “nostra” società e siamo restii ad accettare che invece si tratta del risultato di lunghi e continui scambi (Marco Aime)».

(!) Questa prospettiva non mi soddisfa del tutto, è pur sempre un pensiero evidente a livello teorico, ma difficile da attuare in una realtà caratterizzata dall’esclusività del tratto. Allo stato attuale, é più agevole riuscire a costruire l’unicità, anziché provare a de-costruirla. Parlare di processi di omogeneizzazione culturale o di reciproca influenza, sotto certi punti di vista, è un'eresia. Per cui ancor prima di mostrare una certa irritazione nell'uso del termine "vero" dovrei iniziare a ricostruire quel discorso che si intesse intorno a questo concetto dato che è fortemente vivo nelle pratiche, no?


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3 years ago

"Diari'' di campo

"Diari'' Di Campo

Margaret Mead, Sto proprio bene e resisto al clima con lodevole coraggio.

"Diari'' Di Campo

Alfred Métraux, Scrivo queste righe sdraiato nel mio sacco e illuminato da una stenta candela

"Diari'' Di Campo

Claude Lévi-Strauss, Mi sembrò che i problemi che mi tormentavano potessero fornire materia per un lavoro teatrale.

"Diari'' Di Campo

Paul Rabinow, Il mondo era diviso in due: quelli che avevano fatto ricerca sul campo e quelli che non favevano fatta

3 years ago

| La pubblicità progresso |

Mentre camminavo per le strade di Taormina il mio sguardo viene “catturato”, per deformazione professionale, da questi negozi: “Arte paesana” o “Etnic one”, siti in una delle vie principali del centro.

| La Pubblicità Progresso |
| La Pubblicità Progresso |

Mi colpiscono perché sono vocaboli del gergo antropologico, nel senso che la disciplina antropologica da sempre si è confrontata con i concetti di identità e rappresentazione culturale.  

Da brava aspirante ricercatrice mi sono documentata e:

per ciò che concerne “Arte paesana” è «un’attività che affonda le sue radici nella figura di Vincenzo Daneu (Trieste 1860 - Taormina 1937) fonda, a Palermo, un’impresa commerciale, a conduzione familiare, di piccolo e alto antiquariato prediligendo l’arte “paesana” di Sicilia e di Sardegna»; il «punto vendita propone tovaglie e ricami ottocenteschi»;

invece “Etnic one”, come riportato nel sito web, «offre un'esperienza di shopping sensoriale unica ai suoi clienti […] abbigliamento etnico particolare e scelto con cura, gioielli, accessori e home-decor». 

È lampante che questi soggetti imprenditoriali si sono appropriati di alcune terminologie, riadattandole e rivendicandole come segni caratteristici.

In parallelo e sotto un certo punto di vista, queste attività sono portatrici di un’ambivalenza, ovvero che essenzializzano “l’arte del paese” o lo stile etnico.

Ripenso al dibattito nel mondo dell’arte di fine Ottocento, quando l’Occidente istituiva musei e vi esibiva oggetti provenienti dalle colonie d’oltremare. Ad esempio, le maschere africane venivano considerate come “arte primitiva” e gli occidentali si mostravano riluttanti a considerare che quelle potessero essere delle forme di arte alla stregua del Mose di Michelangelo. Sally Price ne I primitivi traditi (1992) «ha messo in discussione l’etnocentrismo con il quale le categorie e le forme di valutazione dell’arte occidentale hanno escluso gli oggetti non-occidentali (Caoci 208, 160)». Infatti, l’arte primitiva veniva considerata semplice ed elementare rispetto a quella occidentale, era vista come il prodotto di pulsioni istintuali o psicologiche. Gli artisti primitivi erano gli «esponenti incontaminati dell’inconscio dell'uomo», mentre gli occidentali erano i soli che potessero accedere ad una forma di estetica cosciente. Pertanto l’arte occidentale non era mai sottoposta alla reazione dei primitivi, perché questi non venivano ritenuti in grado di partecipare ad esperienze estetiche che oltrepassino i confini delle proprie culture. 

Da queste considerazioni è evidente che se leggo “arte paesana” o “etnico” rimango leggermente interdetta, perché ripenso al dibattito che decostruisce ed epura da certe viziositá. Vedere che, invece, c'è una tendenza al ri-attualizzare e al ri-appropriarsi di certe parole è piuttosto curioso ed insolito.

Orbene, con questa riflessione non vorrei essere io a tipicizzare le istanze delle due attività commerciali. Ritengo che sarebbe più produttivo l’ascolto delle scelte dell’imprenditore o della imprenditrice per l’uso di quel termine o di andare direttamente al nocciolo della questione chiedendosi: "ma chi boli diri “arte paesana”? (Per i non catanesi = che significato assumono questi concetti nel XXI secolo?). 

Bibliografia 

Caoci A., 2008, Antropologia, estetica e arte. Antologia di scritti. 

Price S., 1992, I primitivi traditi. L'arte dei «selvaggi» e la presunzione occidentale. 

Siti per approfondire Vincenzo Daneu: (Soprintendenza per i Beni Culturali ed Ambientali di Palermo, via Garibaldi, 41, Palermo (2021) (govserv.org)); Shopping d’autore a Taormina (compagniadeiviaggiatori.com)

Sito web "Etnic One": (etnicone.com/) 


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3 years ago

| Le falle del sistema |

Giorni fa l'algoritmo di Youtube, che sa della mia profonda ammiraossessione per Umberto Galimberti, mi ha proposto una sua conferenza sull’identità. Galimberti ha indicato che l’identità è un dono sociale e l'individuo viene riconosciuto socialmente. Porta l’esempio della maestra che reputa un bambino intelligente e studioso, lo incoraggia nello sviluppo di un'identità positiva.

Ho avuto modo di approfondire questa tematica ne L’epoca delle passioni tristi. Gli autori, Benasayag e Schmit, parlano a riguardo dell’utilitarismo scolastico:

«tale ideologia pretende di costituire un mondo trasparente, in cui possiamo sempre giudicare ciascun essere umano in funzione di criteri chiari, precisi e univoci: i criteri quantitativi […] Nel gioco dell’utilitarismo scolastico, significa molto di più: viene considerato una specie di biglietto d’ingresso nel mondo degli adulti, perché si pensa che chi non studia sarà disoccupato, avrà una vita mediocre eccetera».

Ripenso al mio percorso scolastico, dove i miei/mie compagni/e venivano etichettat*, classificat* e, per certi versi, schedat* in base a quanto e a come rendevano. Le loro esistenze venivano cristalizzate e uniformate.

Queste considerazioni penso che possano essere applicate anche a quei casi in cui una bambina o un bambino viene ritenut* dall’insegnante taciturn*, silenzios* e spingono il soggetto a pensarsi in un modo anziché in un altro, le influenze dell'insegnante modellano la sua identità in base a quel tratto esteriore che gli è stato “donato”.

È evidente che si tratta di un sistema e di un modo di organizzare la vita scolastica degli alunni e delle alunne del mio contesto culturale, ma come si potrebbe rimettere al centro il soggetto?

Bibliografia

Bonetti R., 2014, La trappola della normalità.

Galimberti U., 2021, Trovare la propria vera identità.

Schmit G., Benasayag M., 2003, L’epoca delle passioni tristi.


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3 years ago

Condivido appieno i tuoi pensieri sulla normalizzazione della diversità attraverso la vendita di bambole raffiguranti ragazze che deviano da quelli che sono i comuni canoni estetici. Non posso però fare a meno di avvertire il rischio che si tratti di un'operazione prettamente commerciale, con l'obiettivo di vendere *anche* a quelle bambine che non sono né bianche né bionde. Tu cosa ne pensi?

Ciao @11-cis-retinale, grazie per la condivisione del tuo punto di vista😊.

Hai perfettamente ragione, sotto un aspetto si tratta di "un'operazione prettamente commerciale", perché queste bambole sono pur sempre un prodotto della e per la società consumista. C'è comunque da aggiungere che, al di là del fatto in sé, queste bambole rappresentano e veicolano messaggi culturali. È lì che, secondo me, diventano funzionali e smettono di essere mera "merce".

3 years ago

23 Agosto || prendere spunto da Barbara Millicent Robert

Ero al supermercato ed ho visto questa bambola.

23 Agosto || Prendere Spunto Da Barbara Millicent Robert
23 Agosto || Prendere Spunto Da Barbara Millicent Robert

Ha catturato sin da subito la mia attenzione, perché è una Barbie diversa da quelle con cui sono cresciuta. Non avrei mai pensato che questo oggetto fosse l’espressione dei canoni estetici del mio contesto culturale. Ho dovuto aspettare "Antropologia culturale" (primo esame universitario. Che ricordi awww💖) per comprendere quanto quella bambola fosse un prodotto culturale ed artificiale, grazie al saggio di Elizabeth Chin “On the Butt Size of Barbie”.

Osservo questa bambola e penso “Che figata. Guarda un po’ il capitalismo. Fa qualcosa di produttivo e funzionale”. Torno a casa e inizio a documentarmi. Scopro che si tratta di una linea realizzata dalla Mattel, casa produttrice, per sensibilizzare alla diversità e promuovere l’inclusività.

Potevo sottrarmi a sproloquiare...? Ognuno ha le proprie croci. Minchiaterie a parte.

Risulta chiaro che con questa operazione la Mattel si allinea e risente del dibattito culturale del nostro tempo. Ritengo che questa campagna non sia un prodotto del pensiero mainstream o politically correct, ha invece del potenziale, qualcosa da non sottovalutare insomma.

Concepire e produrre una bambola che sia calva, sulla sedia a rotelle o con la vitiligine non è soltanto un'azione volta a far identificare una categoria di persone o per evitare che vengano paturnie alle bambine, perché non sono magre e bionde. Secondo me invece spinge ad "un abituarsi alla differenza", ecco dove sta l'operazione di normalizzazione; per far entrare le persone in un mindset diverso; per evitare che l'attenzione si concentri sulla differenza, per andare oltre il fatto e provare a guardare oltre. Perché se cresci con la normalizzazione della differenza, di conseguenza potrai vedere altro.

Io trovo che questa linea di Barbie sia qualcosa di geniale, perché fin troppo spesso si parla di tematiche sensibili attraverso la retorica e il moralismo. Perché non sensibilizzare a partire dal quotidiano? A tal ragione, ripenso agli studi di Jean-Pierre Warnier sulla materialità e sugli oggetti. L’etnologo francese afferma che gli oggetti sono dotati di una propria ‘agentività’, sono capaci di influenzarci e di modificare il nostro modo di concepire il mondo. Per cui se a quattro anni trovavo ‘normale’ che la Barbie dovesse essere bionda, magra, le generazioni successive guarderanno senza malizia la diversità che segna e caratterizza i nostri giorni.


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3 years ago

Panico delle 10:49 come si “traduce” un dato etnografico?

In Università, i/le prof. sono così competenti a esporre le teorie di X, Y, Z, ma nessuno che spiega come si costruisce o si interpreta un resoconto o una visione di mondo. AAA.

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3 years ago
Jennifer Cavalleri: Senti Prepi L’ho Capito Che Un Po’ Di Cervello Ce L’hai.
Jennifer Cavalleri: Senti Prepi L’ho Capito Che Un Po’ Di Cervello Ce L’hai.

Jennifer Cavalleri: Senti Prepi l’ho capito che un po’ di cervello ce l’hai.

Oliver Barrett IV: Sul serio?

Jennifer Cavalleri: Certo. Hai preso una cotta per me, no?

Jennifer Cavalleri: Senti Prepi L’ho Capito Che Un Po’ Di Cervello Ce L’hai.
Jennifer Cavalleri: Senti Prepi L’ho Capito Che Un Po’ Di Cervello Ce L’hai.

Oliver: E’ incredibile.

Jennifer: Ah?

Oliver: Sto studiando. Sto studiando sul serio.

Jennifer: Shh. Anche io.

Oliver: Scusi. Scusa.

~ Ali MacGraw e Ryan O' Neal in Love story (1970)


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3 years ago

23:20 || 19 agosto || ripristina-menti

In questi giorni sto cercando di intraprendere nuove prospettive per approcciarmi a questa realtà satura di esistenze.

Nelle ultime settimane sto ascoltando e vedendo che tante persone rimangono impigliate in circoli viziosi che sembrano essere deleteri. E tra queste alcune mi fanno proprio alzare gli occhi al cielo, perché applico un riduzionismo di tipo cinico...

Ciononostante mi impongo di superare la superficialità. E mi metto in testa che vorrei spiegare un sacco di cose; usare quello che sto imparando dalla teoria per aiutare, per confortare; provare a spiegare come funziona la sofferenza che viene impressa dalla società (es. gli ideali, i desideri, rapporto uomo-donna); insomma di fornire mezzi per uscire dal destino triste a cui ci condanna il nostro contesto sociale.

Poi, però, mi ricordo che sto tralasciando un aspetto. Queste sono solo le mie volontà. Capisco che devo fermarmi e fare un passo indietro. Non posso avere la presunzione di limitare l'agentivitá altrui e plasmarla secondo il mio punto di vista. Inizio così a chiedermi: questa persona che ho davanti cosa si aspetta da me? Cosa mi sta comunicando? Cosa sta significando per lei questa condivisione? É solo un riferirmi il suo stato d'essere? Oppure dietro risiedono altri meccanismi o simboli che non riesco a cogliere?


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3 years ago

12:46 || meglio forze sinistre che serendipità (pliz)

Al liceo avevo affinità con filosofia, ma proseguii i miei studi con antropologia perché ritenevo che mi desse una preparazione di tipo pratico e meno astratto. Ero arrivata a questa considerazione dopo che mi ero documentata (shame on me! Vabbè ero una bimbaminkia e non si era ancora compiuta “l’ascesi”) su Yahoo answer. Rimasi affascinata dal modo in cui l’utente spiegava gli elementi costitutivi dell’antropologia. E così a diciannove anni scelsi quell’ambito di studio, ignara del potenziale di quella scelta.

Guardando ad oggi, sto leggendo un’intervista, sulle traiettorie dell’antropologia culturale in Italia. L’intervistato, noto antropologo italiano, racconta che si è laureato in filosofia… dato che negli anni ‘50 del ‘900 in Italia non era ancora presente una facoltà di antropologia.

Il passo mi ha lasciata piacevolmente scossa, perché ripenso alle me diciannove che guardava all’antropologia come un puzzle. Avete presente quello da 1000 pezzi, dove i tasselli si dispongono alla rinfusa e viene piuttosto complicato assemblarli, ma succede poi qualcosa che li fa unire coerente-mente…

(Boh. Forse gli spiriti e i demoni, quelli delle culture “esotiche” o “extra-occidentali” che cercano di comprendere gli antropologi, iniziano un po’ a condizionare il corso degli eventi della mia esistenza.)


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3 years ago

New word of the day “progressive rock”.

(anche se sinceramente in italiano suona meglio “rock progressivo”).

3 years ago

When continui a trascrivere e decidi di specificare “morosa”.

When Continui A Trascrivere E Decidi Di Specificare “morosa”.

Lo so. Sarà uno scritto ad uso e consumo del Nord, per alcuni sarà inutile questa precisazione, ma OH:

1. sono sicula;

2. voglio provare l’ebbrezza dell’antropologo che annota tutto, come facevano quegli etnologi di fine ‘800 che, entrando in contatto con i popoli extra-occidentali, scrivevano monografie zeppe di note.

(ps: se qualcun* del Nord si sente di aggiungere altro, magari sull’etimologia, è ben accett*!)


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3 years ago

8 agosto || in principio era: “Vabbe’ devo appuntarmi queste cose…”

È legger-mente sconfortante riconoscere, solo al 5 anno di università, che la parte più interessante del mestiere dell’antropologo non sta soltanto nello studio del pensiero di X, Y, Z, ma nel relazionarsi e nel confrontarsi diretta-mente con l’oggetto di studio, cioè con le persone. Le interviste qualitative, che sto realizzando, mi fanno comprendere l’importanza di non tralasciare che, al di là delle teorie, ci sono gli esseri umani in carne ossa.

Quando intervisto — che parolaccia —, quando chiacchiero con i miei “informatori” ho accesso ad un qualcosa — non so come definirlo — che difficilmente trovo nei libri (e credo che non lo troverò mai).

In questi momenti provo sempre qualcosa di diverso, di unico e di irripetibile. Credo che sia un’esperienza

d e s t a b i l i z z a n t e,

che non vorrei declinare  attraverso l’opposizione “positivo/negativo”. Quest’esperienza ha degli elementi, almeno così ho rintracciato, in cui mai nessuno la pensa, davvero, come te. Ciascuno è un universo a sé, vive la società, gli stimoli, l’intera realtà in maniera totalmente inedita, diversa. Anche se a volte mi sembra che tutti i pensieri e le persone si muovano uniforme-mente, realizzo che non è così. E così mi lascio trasportare da ciò che il mio interlocutore decide di raccontami, anziché seguire, tendenziosa-mente, la mia linea di pensiero… È arduo, certamente! Cogliere però il punto di vista dell'altro, documentarlo, ascoltarlo è un passo necessario per capire cosa siano questi problemi del e nel sociale.

3 years ago
                   ||  Keep It In Case Of An Emergency ||

                   ||  keep it in case of an emergency ||

3 years ago

probabilmente questa cosa non farà ridere nessuno ma la devo condividere, perchè mi ha fatta troppo ridere.

Sto trascrivendo un’intervista *antropologimagicosa*, e nel riascoltare il mio intervistato, tipo stra-intellettuale, composto, equilibrato con le parole, ad un certo punto dice vecchi anziché anziani. Ora, non so perché trovo divertente questo, forse sarà stato questo dosato e (in)consapevole cambio di registro, la sua tranquillità nel switchare da «vecch-» ad «anziani». Per certo la mia ilarità non dipende dallo schernire il mio intervistato…Boh, ora sto cercando di capire perché lo trovo spassoso, indagando il tutto con quel fare da “pensatrice illuminista che ho a volte” e… trovo che non mi faccia più ridere.

💖Che palle che sono💖

Probabilmente Questa Cosa Non Farà Ridere Nessuno Ma La Devo Condividere, Perchè Mi Ha Fatta Troppo
Probabilmente Questa Cosa Non Farà Ridere Nessuno Ma La Devo Condividere, Perchè Mi Ha Fatta Troppo
3 years ago

[Ultimamente sto rileggendo la mia infanzia come una memorialistica. Nell’isolare gli eventi, le persone, i luoghi, costruisco una narrazione che trova la sue radici nel passato, ma che continua nel presente. Per farvi capire meglio:]

Episodio 1 - Gloria nell'alto dell'Ego

Che vivessi in un contesto di ipocrisia e di singolare moralità mi era chiaro sin dall’inizio. Sono cresciuta in una scuola cattolica o «la scuola delle suore», un ambiente che esprimeva la religiosità soprattutto nelle icone e nelle cappelle disperse per l’intero edificio. Se i bambini della mia età passavano i pomeriggi a guardare i cartoni animati in TV, la suorina che si occupava di me e del resto dei fanciulli ci propinava film e documentari alquanto impegnativi. Per farvi un esempio, lei aveva una morbosa ossessione per formare le nostre piccole coscienze attraverso documentari e film del tipo “Gesù che salvava i lebbrosi”, “Iqbal Masih”, “I bambini che soffrivano in Africa”, “Le favelas” “I pastorelli di Fátima” … Col tempo però mi sono resa conto che in quella suorina risiedevano ambiguità. Urlava, sgridava e castigava i bambini più discoli. Ricordo che una volta, era molto adirata con un bambino e a furia di rincorrerlo le era quasi caduto il soggolo. Questo episodio non è volto a stigmatizzare né la suora, né la confessione a cui appartiene. Ciò mi fa comprendere che anche chi vuol essere agli occhi degli altri “pio” e moralmente virtuoso: deve fare i conti con il suo lato umano.

Questo evento mi spinge a trovare dei collegamenti con il mio presente e a realizzare riflessioni. Oggi assisto ad un costante asservimento alla morale dei giusti ideali che sfociano però in una deresponsabilizzazione delle coscienze. Queste si fanno indottrinare e fagocitano principi e presupposti, ma nella pratica? Insomma tutto è “buono da pensare”, ma difficilmente attuano piena-mente le istanze che si erano promessi di realizzare. Mi chiedo adesso: come entrare e riuscire ad unire, efficace-mente, lo spazio dell’ideale e dell’azione? Come far incontrare due condizioni, quali l’irreale e il reale, che apparente-mente sono in antitesi?

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